16 Lug La tradizione contadina e la seta
Articolo scritto da un lettore appassionato per “Testimonianze”, la rubrica dedicata a chi, come noi, contribuisce ogni giorno a far conoscere i segreti di questa fibra così naturale e preziosa.
La prima volta che, ancora ragazzino, entrai nel palazzo signorile affacciato sulla piazza del Duomo di Ceneda e appartenuto al mio trisnonno, primo sindaco di Vittorio Veneto, fui sorpreso nel constatare che la sua corte interna e i grandi campi adiacenti gli conferivano, inaspettatamente, un aspetto piuttosto rurale. I segni dell’attività contadina erano ancora tangibili nei depositi degli attrezzi costruiti a secco lungo le mura e nel piccolo cascinale rosso dedicato alle stalle.
All’interno del palazzo, il piano nobile era scaldato da un unico grande camino e da una vecchia cucina a legna. Le soffitte invece, contavano numerosi piccoli caminetti con una strana forma conica. A cosa servivano? Qual era l’utilità di scaldare delle soffitte?
“Perché le uova potessero schiudersi tutte nella stessa giornata, e i neonati bacolini risultassero protetti da una eccessiva umidità e dagli sbalzi di temperatura”. La risposta inattesa di mio padre mi catapultò in una storia fino a quel momento a me del tutto sconosciuta: il favoloso mondo dei bachi da seta, denominati “cavalier”. Una storia questa che riguardava tutti i vittoriesi perché la popolazione era profondamente coinvolta in questo settore produttivo. Scoprii che da Vittorio Veneto partivano matasse di seta per l’Austria, i Balcani e la Russia, ma anche per i paesi del Nord Europa e l’America.
Evidentemente anche il mio tris-nonno, da bravo primo cittadino, si impegnava a dare il suo contributo. Ed era tra i pochi fortunati a possedere delle soffitte con camini interamente dedicate alla cura dei “cavalier”.
La maggior parte delle famiglie contadine più modeste, che con la vendita dei bozzoli integravano in maniera importante i loro introiti, era costretta ad allevare i bachi nelle stanze di casa e si tramandavano i racconti delle preziose piccole uova, denominate seme bachi, che venivano portate alla nascita conservandole nelle stanze da letto, sotto i materassi o tra i risvolti delle coperte.
Allevare i bachi da seta non era un lavoro semplice e richiedeva un coinvolgimento di tutti i membri della famiglia: c’era chi prenotava direttamente i bacolini per poterli ritirare al momento della nascita, chi invece acquistava le uova, seme bachi, e provvedeva a custodirle al caldo per il delicato periodo necessario all’incubazione. I bachi venivano quindi allevati con foglie di gelso per circa 30 giorni ma le cure poi continuavano per ulteriori 10 giorni durante i quali il baco filava il bozzolo ancorandolo a dei sottili rametti secchi, ben asciutti, con i quali si realizzava il così detto “bosco”.
Nella seconda metà dell’Ottocento quando la nostra regione faceva parte del Regno Lombardo Veneto, dilagò in tutta Europa una devastante epidemia che colpì i bachi da seta e azzerò la produzione di bozzoli. La Bachicoltura poté riprendersi solo grazie a particolari Istituti deputati al controllo della sanità delle uova e alla produzione di seme bachi che appunto, per poter essere utilizzato, doveva per legge essere certificato sano.
La città di Vittorio Veneto eccelse subito in questa attività e divenne il centro di produzione di seme bachi più importante d’Italia dopo Ascoli Piceno. Le colline e l’alta pianura videro un’enorme espansione della coltura del gelso che contribuì al superamento di un’economia chiusa e basata sull’autoconsumo.
Grazie alla coltivazione del baco da seta e alla sicurezza economica che questa garantiva, la casa contadina andò via via trasformandosi in un centro di produzione artigianale su base familiare. Un fenomeno socio-economico che contribuì alla trasformazione della vita e della cultura non solo della mia cittadina, ma di moltissimi paesi sparsi un po’ lungo tutto lo stivale.
La bachicoltura incise profondamente nelle nostre comunità contribuendo alla formazione di abitudini di lavoro, di economia e di organizzazione ancora riscontrabili e soprattutto stimolando lo spirito di collaborazione, sia all’interno della famiglia che nella comunità. Le prime forme cooperative sono sorte proprio in rapporto alla coltivazione dei bachi da seta. Il ciclo vitale del baco da seta, che dentro al bozzolo si trasformava in crisalide e quindi in farfalla secondo uno scadenziario ben preciso che non lasciava margini temporali di manovra, comportò infatti la necessità di ricorrere a forme cooperative. Sorsero le così dette “camere di incubazione” per la distribuzione dei bacolini appena nati agli agricoltori, e gli “essiccatoi bozzoli”.
Grazie al continuo sorgere di filande, nelle quali si ricavavano le mattasse di seta greggia, moltissime donne trovavano per la prima volta una realtà occupazionale al di fuori delle proprie mura domestiche. Una vera rivoluzione insomma, intorno ad una fibra tessile che ha una storia plurimillenaria e che oggi affascina più di ieri.
A testimonianza dell’importanza della coltivazione del baco da seta nel mio territorio natale, Vittorio Veneto ospita due bellissimi Musei.
Il primo, pubblico, si trova nello spazio nell’ex filanda Maffi di San Giacomo di Veglia. Il museo restituisce alcune tracce di memorie personali e collettive, per raccontare alle nuove generazioni il complesso mondo agricolo, industriale, scientifico e sociale che per lungo tempo è ruotato attorno al favoloso mondo del baco e al suo magnifico prodotto: la seta.
Il secondo, privato, si trova nel complesso dell’Osservatorio ed Istituto Bacologico Marson in località Meschio e documenta la storia dell’industria preposta alla produzione del seme bachi che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, caratterizzò per un secolo la Città di Vittorio Veneto.
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